Linkin Park, One more light e la via sperimentale. Un nuovo Chester durato troppo poco.
Non c’è dubbio che dopo la tragica scomparsa di Chester Bennington, morto suicida lo scorso 20 luglio, One more light dei Linkin Park assuma un significato diverso, particolare, agrodolce. È il settimo album in studio della band statunitense. Già prima della tragedia in realtà One more light non era passato inosservato in quanto rappresenta una rottura rispetto ai precedenti lavori del gruppo: niente scream nel cantato, chitarre presenti ma non così ruggenti.
Linkin Park, One more light: il dolce saluto di Chester
Difficile non riascoltare Nobody can save me con un orecchio e un’attenzione diversa perché il brano meriterebbe un’analisi interiore, un occhio di riguardo al testo, un triste monito. Musicalmente parlando siamo di fronte a un pop poco digeribile dai cultori dei Linkin Park. Al secondo posto Good goodbay vanta la collaborazione di Pusha T e Stormzy. Qui il rap, uno dei marchi di fabbrica, incontra un ritornello molto radiofonico, forse ancora una volta poco alla Linkin Park. I motori si scaldano davvero con Talking to myself dove finalmente compare qualche chitarra e qualche sonorità familiare per i fans. Manca lo scream come promesso ma è trattenuto a stento. La voglia era quella di esplodere alla vecchia maniera. Battle simphony ripropone il magico duo consolle-voce ed è una delle canzoni più riuscite dell’album. Non mancano degli esperimenti musicali e canori di un gruppo evidentemente alla ricerca di una nuova fetta di pubblico, ma questa piace. E arriviamo senza grandi sussulti a Invisible, il giro di boa di One more light. Canzone morigerata, contenuta ma convincente. Pregevole il finale che evita il rischio monotonia da ballad.
Heavy, in collaborazione con Kiiara merita un posto nella Top 3 dell’album. Anche qui siamo lontani dalla tradizione Linkin Park ma non sempre cambiare strada è un male. Canzone varia, dinamica, indovinata. Sorry for now non regala nulla (o quasi) di nuovo rispetto ai brani precedenti. Grande protagonista la voce stavolta cristallina di Chester. Halfway right promette bene, tiene l’ascoltatore sul filo del rasoio e delle emozioni ma non esplode mai, ci prova nel finale e non delude. Preludio al finale è la title track dell’album dei Linkin Park, One more light, una canzone essenziale, semplice con sottofondo e tanto Chester. Piace tanto. Si chiude con Sharp Edges, chitarra acustica e voce, la stella più luminosa dell’album.
Insomma i nuovi Linkin Park avrebbero meritato tempo. Peccato. Mancherai Chester, see you.